C’è un motivo, sicuramente più lugubre del bellissimo Castello Orsini che ospita, per cui Nerola è impressa nella memoria collettiva degli italiani. Si tratta di una storia di sangue e crudele efferatezza: è la storia del Mostro di Nerola.
Chi era Ernesto Picchioni?
Il Mostro, al secolo Ernesto Picchioni, classe 1900, si era trasferito qui, da Ascrea, sempre nel reatino, nel corso del 1944: vendeva lumache, raccontava in giro, per vivere. Ma non gli credeva nessuno e lì a Nerola non godeva di particolari simpatie. Tesserato del Partito Comunista, si dava arie da idealiste, ma non era altro che un ubriacone che viveva di espedienti. Con sulle spalle una famiglia composta da una moglie, Filomena, quattro figli e un’anziana madre.
Di certo, nell’opinione che si erano formati su di lui i compaesani, non era aiutato da quell’aspetto truce, definito “atroce” dai cinegiornali che a posteriori avrebbero fornito la cronaca dei fatti, un viso sempre imbronciato e quasi beffardo.
Il casale al chilometro 47 della Salaria
E l’aver occupato quel casale, con annesso terreno, al chilometro 47 della via Salaria, non faceva che aumentare la disistima di quanti lo conoscessero. A dirla tutta, si trattava di una pratica assai diffusa all’epoca, che certo non la rende più giustificabile, e aggravata dalle modalità in cui Picchioni si era impadronito della proprietà: con l’aggressione, in mano un pesante mattone, contro il proprietario, episodio che gli era valsa una denuncia e un relativo periodo di reclusione.
Oggi il casale è ancora lì, semidiroccato e osservato da tutti con sospetto e timore, viste le leggende che circolano al riguardo. Nessuno osa frequentarlo. C’è chi si dice sicuro di aver visto lo spettro del terribile Mostro, aggirarsi per i dintorni, ancora non soddisfatto e alla ricerca di vittime, troppo cattivo, forse, per essere accettato anche nell’aldilà.
Nerola è tutta un’altra storia
Chi passa per Nerola non può non citare la storia del Mostro, purtroppo questa storia rimarrà legata al nome del paese dove si è svolta. Come il Mostro di Firenze, come il killer di Nashville. Tuttavia, Nerola non è certo solo questo. Il grazioso borgo dovrebbe essere ricordato per il magnifico Castello che ospita, e che prende il nome dagli Orsini, ovvero una delle famiglie che ebbero questo territorio in feudo, o per la sua antichissima storia, cominciata nel X secolo.
Vi consigliamo davvero una passeggiata qui, per i suoi vicoli con i balconi fioriti, chiacchierando con gente ospitale e genuina, figlia di quei nerolesi che non avevano mai davvero accettato questo forestiero, di cui percepivano la pericolosità.
Nelle vostre passeggiate, incontrerete trattorie e ristoranti che vi offriranno un saggio delle specialità della gastronomia sabina e laziale, che non mancheranno di deliziarvi il palato.
E, se passate qui, davanti al casale, rivolgetelo pure un pensiero al Mostro, e riflettete sul fatto che la natura umana ha dei lati oscuri, dei buchi neri, con cui, davvero, non vorremmo mai avere a che fare.
Come Picchioni divenne un mostro
Il Picchioni è stato un terribile serial killer, uno dei più efferati della cronaca nera italiana, di una ferocia aggravata dalla futilità dei motivi che lo spingevano a consumare i suoi delitti: gliene vengono attribuiti da quattro a sedici, in un numero che è spaventoso anche nella sua versione più bassa, con moventi banali, che poteva essere l’interesse per un qualsiasi oggetto che aveva la potenziale vittima. Fin qui, parliamo di esseri umani: nel campo degli orrori intorno al casale, dove furono poi ritrovati i cadaveri, le forze dell’ordine scoprirono moltissime carcasse di cani. L’omicida si divertiva ad esercitare la sua mira con la doppietta contro i quadrupedi che si avvicinavano alla “sua” proprietà. La sua crudeltà non si fermava davanti a niente.
Penserete voi, era sicuramente un pazzo. Ebbene, dopo la sua cattura, una perizia psichica venne richiesta ed emerse che pazzo non era. L’infermità mentale sembrava piuttosto abilmente simulata. Il Mostro non era incapace di intendere e volere. Ma stiamo andando troppo avanti nella nostra storia, torniamo alle vittime.
L’omicidio di Alessandro Daddi
Alessandro Daddi, impiegato ministeriale, percorreva la via Salaria in quell’estate del ’47, con un Cucciolo. Si trattava di un veicolo all’avanguardia all’epoca, una bicicletta su cui veniva installato un piccolo motore, che la rendeva una sorta di scooter ante litteram. Alessandro, purtroppo, non superò mai il chilometro 47.
Bucando la gomma, pare per dei chiodi lasciati a bella posta da Picchioni, fu sicuramente sollevato nel constatare che il contadino che viveva lì nei pressi gli offriva aiuto per riparare il danno.
Di fronte agli occhi atterriti di moglie e figli, quel contadino tanto gentile colpì Daddi con una mazza ferrata, uccidendolo. Il motivo? Voleva il Cucciolo. Le minacce, ai suoi parenti, non si fecero attendere: loro avrebbero seguito l’assassinato se avessero parlato, e per rendere ancora più concrete le sue parole, il figlio Angelo fu costretto a scavare la fossa che li avrebbe accolti.
Fu la moglie a denunciare il mostro di Nerola
Questi particolari emersero nel corso della testimonianza resa da Filomena, pressata dalle indagini dei Carabinieri, che già erano fortemente indirizzati a sospettare quel suo marito perdigiorno e violento. Tanto più che Picchioni, nei giorni seguenti alla sparizione di Daddi che era stata denunciata dalla sua famiglia, si era fatto vedere, fin troppo ingenuamente, dai suoi compaesani mentre scorrazzava su un Cucciolo, un veicolo decisamente fuori dalla sua portata, e che non passava certo inosservato.
Approfittando di una temporanea assenza del capo famiglia, il maresciallo della caserma dei carabinieri locale convinse Filomena ad esporsi, garantendole protezione, per lei, e i suoi cari. E la donna raccontò. Raccontò dell’omicidio di Pietro Monni, avvocato romano scomparso qualche tempo prima, e condusse i militari nel cimitero improvvisato su cui letteralmente, camminavano: quello che venne fuori era spaventoso. I resti di Monni, Daddi, di un ragazzino tredicenne, di un uomo anziano, restituirono la fotografia di un pericoloso criminale, che doveva essere separato dal resto della comunità.
La fine della nostra storia
Come anticipato, all’arresto, di fronte a quella schiera di cadaveri e resti umani, si avviò una perizia psichiatrica, che diede esito negativo: Ernesto Picchioni era sano di mente. Perpetrava i suoi delitti con precisa sicurezza, semplicemente attendendo le sue vittime, e freddandole con un colpo di fucile, o con un colpo ben assestato. Mai un segno di pentimento arrivò, piuttosto solo il rincrescimento per il “tradimento” della moglie.
Nemmeno la sua irascibilità si placò mai. Spesso, infatti, aggrediva gli altri carcerati, ma si spinse più in là, tentando di aggredire il Papa recatosi in visita pastorale presso il carcere di Civitavecchia dove era detenuto. Era condannato a due ergastoli, più altri ventisei anni di pena, e tentò di lanciarsi contro il nemico clericale, nella sua distorta visione di militante comunista.
E, quindi la sua vita andò a terminare nel carcere di massima sicurezza di Porto Azzurro, all’Isola d’Elba, nel 1967. Una morte naturale, avvenuta per arresto cardiaco, in una stridente contraddizione, a incoerente chiusura di una vita di violenze ed eccessi.
E gli altri membri della famiglia Picchioni? Le due figlie femmine ebbero una fortuna imprevista, con l’adozione da parte di un magnate dell’acciaio. Furono quindi benedette da una vita agiata, con un’ottima istruzione e una cospicua eredità. Certo, quello che avevano visto nell’ambito della loro vita presso la famiglia di origine, difficilmente possono averlo dimenticato. Così come non lo hanno sicuramente dimenticato gli altri, Filomena, o il piccolo Angelo che di solito veniva incaricato di scavare le fosse.